MICHAEL WINTERBOTTOM

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Descrizione

MICHAEL WINTERBOTTOM a cura di Stefano Boni e Massimo Quaglia

Perché dopo Stephen Frears, Olivier Assayas e André Téchiné, Sottodiciotto Filmfestival, Museo Nazionale del Cinema e Edizioni di Cineforum hanno deciso di dedicare, per la prima volta in Italia, una retrospettiva e una monografia a Micheal Winterbottom? Non certo, ovviamente, per pareggiare i conti tra Francia e Gran Bretagna. E nemmeno a causa dell’evidente interesse del regista inglese nei confronti dell’universo giovanile o del ricorrere nella sua opera del tema su cui si è deciso di concentrare l’attenzione del Festival in questa edizione, quello dei diritti. Pur essendo entrambe estremamente importanti, le ultime due motivazioni sembrano costituire condizioni necessarie ma non sufficienti a giustificare il progetto. La vera ragione consiste piuttosto nel fatto che il cineasta di Blackburn è da considerarsi, alla stessa stregua dei colleghi che l’hanno proceduto a Torino, un esponente del cinema d’autore. Categoria alla quale la critica – l’italiana in prima fila -, trascorsa una fase iniziale di benevola curiosità nei suoi confronti, fatica ad ascriverlo, mossa com’è da un pregiudizio infondato.

Il cinema di Winterbottom può probabilmente disorientare a causa di una serie di fattori connessi l’uno con l’altro. Innanzitutto una prolificità insolita rispetto agli standard abituali, che in venti anni di una carriera incominciata con un doppio documentario su Ingmar Bergman lo ha portato a realizzare una trentina di lavori di vario tipo (cortometraggi, mediometraggi, lungometraggi, destinati al piccolo o al grande schermo, documentari o di finzione ecc.). Presupposto indispensabile di tale prolificità è l’indipendenza, che si è quasi immediatamente garantito dando vita con l’amico Andrew Eaton alla Revolution Films. Avere una propria casa di produzione gli ha assicurato quella libertà che gli ha consentito di perseguire una costante sperimentazione linguistica, narrativa e di rilettura dei generi. Si è così andato delineando un percorso di ricerca caratterizzato da un forte eclettismo, difficile da incasellare nelle tradizionali categorie interpretative e quindi più comodamente liquidabile come la prova dell’assenza di uno stile. Non capendo invece che proprio quel tipo di approccio, con i suoi alti (molti) e bassi (pochi) insieme, rappresenta uno dei punti di forza di una poetica insofferente alle formule precostituite.

Basta frequentarne un po’ la filmografia per rendersi poi conto che spesso la sua attività è animata da una palese urgenza espressiva. Chiamato dalla realtà ai quattro angoli del mondo, si dimostra filemaker nel vero e proprio significato del termine. Nel senso che, armato di un’indubbia competenza riguardo alla tecnica cinematografica, scende personalmente sul campo per creare immagini che hanno comunque sempre al centro l’essere umano, osservato con grande sensibilità. Il suo sguardo, come si evince pure dall’intervista che apre il volume, è il frutto di un innato istinto visivo più che di una sofisticata elaborazione teorica. Aspetto, questo, che fa storcere il naso a tutti coloro che sopravvalutano le dichiarazioni d’intenti rispetto ai risultati concreti.

Con la presenza al Sottodiciotto del regista – in compagnia dell’inseparabile Andrew Eaton -, la proiezione delle sue pellicole – dagli esordi all’ultimo, inedito Genova – e la pubblicazione di questo libro si cerca perciò di fornire un contributo, si spera decisivo, al superamento della diffidenza critica verso quello che dovrebbe essere considerato un autore a tutti gli effetti. Nella ferma convinzione che compito dei festival, e in particolare del Sottodiciotto, sia non tanto di riconsacrare chie è già riconosciuto, quanto d’inoltrarsi su sentieri meno battuti alla ricerca del nuovo, come ci hanno insegnato Frears, Assayas e Téchiné. E anche Michael Winterbottom.

Edizioni di Cineforum 2008, collana “Platea”, pp. 79, ill.
ISBN 9788889653166